LA FINE DEL MONDO
di Fabrizio Sinisi
regia Claudio Autelli
NOTE DI REGIA
Il testo contiene al suo interno la realtà del nudo palcoscenico come anche la provocatoria situazione di un party per la fine certa della città di Venezia. Come dice Atena, uno dei personaggi del testo, “la catastrofe possibile crea ansia ma la catastrofe certa invece crea allegria”.
La performance attraverso la presentazione dei suoi protagonisti corre verso l’ultima serata della città lagunare.
La temperatura sale. Quella atmosferica come quella dei dialoghi tra i fratelli e le sorelle che svelano progressivamente le macerie dei loro rapporti.
Due sono i livelli di finzione. Quello dell’invito di Atena a festeggiare sulla sua nave la fine del mondo e quello dello spettacolo che devono mettere in scena gli attori invitati alla serata.
Due sono i piani tematici. Quello “macro”, legato al surriscaldamento globale e alle responsabilità dell’uomo nei confronti della propria annunciata fine, e quello “micro”, legato alle storie private dei protagonisti.
Nell’avvicinarsi all’ora x, tutti i piani cominciano a collassare uno sull’altro, dando luogo a un coro composto da una generazione che sembra essere stata lasciata senza i giusti strumenti, dalla generazione precedente, per interpretare un presente che si trova forse per la prima volta ad interrogarsi sulla possibilità di una prossima propria estinzione.
Lo spazio, che ricorda il palco di una conferenza, accoglie il percorso di emersione delle contraddizioni dei personaggi, è uno spazio/arena che li vede fronteggiarsi uno davanti all’altro, ma lo fa dichiarando la finzione del mezzo. Gli attori prendono il carico delle parole dell’autore e muovendosi dalla concretezza della loro presenza sul palco si avvicinano alle vicende dei personaggi che incarnano guidandoci in un gioco che cerca il cortocircuito continuo tra la realtà del palco e la non più così tanto distopica situazione della festa per l’ultimo giorno della città di Venezia.
Claudio Autelli
NOTE DELL’AUTORE
Ormai da anni il tema della catastrofe ecologica è all’ordine del giorno nel dibattito mediatico internazionale: la quantità di gas tossici nell’atmosfera e il conseguente surriscaldamento globale hanno spinto molti scienziati a parlare del raggiungimento di un fatidico “punto di non ritorno”: un momento oltre il quale il disastro ambientale in atto non sarà più reversibile. Probabilmente, dicono, il “punto di non ritorno” – passato il quale il pianeta Terra avrà raggiunto il suo tragico cortocircuito sistemico – è imminente o addirittura già oltrepassato.
Nonostante questo, nessun senso d’allarme, nessuna urgenza percorre realmente la quotidianità: le masse del mondo industrializzato continuano la propria vita senza modificare quasi in nulla la propria condotta e le proprie abitudini – nessun pensiero del disastro imminente turba davvero la popolazione mondiale, e ben pochi oggi vivono nella consapevolezza o nel pensiero di un’apocalisse che tuttavia gli scienziati ritengono ormai quasi certa, e che sarà senz’altro ben più presente nell’orizzonte delle generazioni future.
Le ragioni di questa indifferenza sono molteplici, ma forse due principalmente prevalgono: da un lato, l’incapacità strutturale della mente umana di ragionare sul lungo termine: nulla di ciò che è “distante” – foss’anche l’apocalisse del pianeta – riesce a perforare l’ordinaria preoccupazione quotidiana; dall’altro, in modo forse più profondo, si tratta anche di una forma di egoismo generazionale: il desiderio implicito, inconscio ma determinato, di vivere e godere il presente senza alcuna preoccupazione del mondo da lasciare alle generazioni future.
Nell’imperturbabilità del mondo all’allarme ambientale, si può forse riconoscere infatti la ferita di un immenso rapporto padri-figli: sono stati i padri, simbolicamente, ad assentarsi dalla responsabilità della “buona tenuta del mondo”; sono stati i padri a costruire una specie di trappola: un destino degenerato che risulterà tragico per i loro figli. E i figli, a loro volta non innocenti, rimangono colpevoli nella misura in cui non si spostano dalla concezione dei padri, ma cercano anzi di imitarli, di riprendere i loro stessi percorsi e i loro stessi desideri, cercando di spostare a loro volta un po’ più in là le lancette di una questione che non può ormai più essere procrastinata. La loro battaglia – nevrotica, incapace, scomposta – è una guerra di figli lasciati soli dai padri in una causa forse già persa, bambini lasciati soli in una casa in fiamme. La generazione dei padri non andrà quindi “continuata”, ma rimessa radicalmente in discussione – combattuta, superata, costruendo fin da subito, rispetto ad essa, una storia alternativa e un destino possibilmente diverso. I padri possono e devono essere combattuti: non fuori, ma dentro di noi.
In questo mondo di “figli” si colloca La fine del mondo: che colloca quattro giovani in una Venezia contemporanea e avveniristica. C’è Luca, un attore; c’è Dora, sua collega ed ex-fidanzata; c’è Diego, fratello di Luca, ricoverato in un istituto per malati mentali; e c’è Atena, attivista ecologista e compagna di un noto magnate e filantropo internazionale. Sono quindi quattro figli, due coppie di fratelli, i cui destini individuali progressivamente si incrociano e s’intrecciano. Su di loro, gravano le ombre delle vicende familiari e dei genitori, assenti o troppo presenti, gravosi e tragici, imperfetti e disastrosi, in un vortice sempre più ampio e turbinoso, dove la catastrofe ambientale diventa specchio di quella privata, e viceversa.
Questo spettacolo, portando sulla scena un problema finora quasi mai affrontato dal teatro come quello ecologico, vuole essere anche un lavoro che dà voce a una generazione che si trova ora a fronteggiare diversi grandi compiti storici. Come appunto recita il finale del Re Lear shakesperiano, con Edgar che parla a nome di tutti i figli di un mondo devastato, in cui tutto andrà ricominciato dall’inizio: “Noi dobbiamo accettare / il peso di questo tempo arduo. / Dire non quello che conviene, / ma quello che sentiamo veramente”.
Fabrizio Sinisi
di Fabrizio Sinisi
regia Claudio Autelli
con Umberto Terruso, Alice Spisa, Anahi Traversi e Angelo Tronca
Disegno luci e allestimento Giuliano Almerighi
Suono e musiche Gianluca Agostini
Video Chiara Caliò
Costumi Diana Ferri
Cura del movimento Lara Guidetti
Assistente regia Valeria Fornoni
Organizzazione Carolina Pedrizzetti, Eva Pettinicchio Sara Carmagnola
Produzione LAB121
con il sostegno di Bando Funder35 Fondazione Cariplo e in residenza presso Zona K di Milano.
con il contributo di Next – Laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo – Edizione 2020